Prendiamo posizione contro la cultura della violenza sulle donne
a cura di Fiorella Capasso,Fiodanice-Cultures en dialogue
novembre 2020
(prima parte)
Quando una bambina viene al mondo, in ogni regione del mondo, questi le consegna un’eredità “naturale” gravida di paradossi che, sin da piccola, la renderà strutturalmente vulnerabile ed esposta alla violenza maschile, a motivo della sua capacità di generare, di aver cura del mistero della vita, nonché di sostare e di vedere nella nebbia[1]. Perché c’è, nelle donne, per se stesse, che siano madri o no, qualcosa di incomparabile, “qualcosa che eccede il confronto con gli uomini”[2]. In questa linea, ma da un’altra prospettiva – un teologo[3] dalla squisita sensibilità artistica, commentando la creazione di Eva nell’arte cristiana, suggerisce che “la donna e Dio hanno un loro segreto di cui Adamo (raffigurato dormiente) non verrà mai a capo.”
Eppure questa bambina, questo essere così speciale, si troverà spesso a correre da sola[4], confusa e inconsapevole delle discriminazioni storiche che la precedono e che tingeranno le sue condizioni d’esistenza dei colori della sottomissione: “ho sempre visto nel dominio maschile, nel modo in cui viene imposto e subito, l’esempio per eccellenza di questa sottomissione paradossale, effetto di quella che chiamo la violenza simbolica, violenza dolce, insensibile, invisibile per le stesse vittime, che si esercita essenzialmente attraverso le vie puramente simboliche della comunicazione e della conoscenza o, più precisamente, della mis-conoscenza, del riconoscimento e della riconoscenza o, al limite, del sentimento”[5].
Come ogni bambina prima di lei crescerà respirando, ignara[6], le leggi del patriarcato[7]:“un sistema di strutture sociali interconnesse che permettono agli uomini di sfruttare le donne” [8]. L’inizio della diffusione del patriarcato – come Legge del padre – si colloca solo a circa seimila anni fa, quando si affermò il concetto di paternità. Prove antropologiche suggeriscono, infatti, che nella maggior parte delle società preistoriche nomadi le relazioni uomo-donna fossero relativamente egalitarie, gli scambi soltanto di natura psicologica e umana e la gerarchia sociale fondata essenzialmente sulle qualità personali (abilità, forza, sesso) sull’età (di norma prevaleva l’anzianità). Le strutture patriarcali si sarebbero storicamente sviluppate a seguito di avanzamenti sociali e tecnologici come l’agricoltura e l’addomesticazione di animali, quando comincia a farsi strada l’idea di “proprietà privata”, anche se non ancora personale, ma comunque esclusivamente in mano ai maschi (anziani) e difesa tramite rapporti di forza (dai giovani)[9]. Da qui comincia un processo involutivo, una trasformazione radicale della relazione egalitaria uomo-donna. Il nuovo patto tra i generi che si struttura nelle pieghe del tempo sarà di prevalente scambio strumentale e riduttivo: “offerta” maschile di protezione in cambio di sottomissione femminile.
Dalla proprietà sulla terra e sugli animali a quella sulle donne il passo risulterà allora “naturale”. Tanto “naturale” che, di generazione in generazione, come una ragnatela che avvolge il mondo, è andata tessendosi una trama culturale mortifera che alimenta in tutti e tutte l’idea che una donna sia una proprietà, una cosa (sei mia/sono sua) o una funzione (moglie/fidanzata/figlia/sorella/madre); un’idea che autorizza a manipolare i significati reali delle parole e a “chiamare ‘relazione’ il dominio della vita della partner, chiamare ‘gelosia’ l’ansia del controllo perso e, soprattutto, chiamare ‘amore’ il rifiuto violento di accettare la libertà dell’altra persona”[10]. Tanto “naturale” che nelle donne risuona un’inconsapevole e sinistra familiarità[11] con situazioni di assoggettamento che le espongono all’innamoramento di uomini più di altri propensi, anche per motivi biografici, a relazioni di dominio. “La vulnerabilità mi angoscia. Chi mi trova in questi stati potrebbe modellarmi come cera”[12].
A sua volta, infatti, quando un bambino viene al mondo, questi lo getta “naturalmente” in un rigido ordine delle cose, attraversato dal “potere ipnotico del dominio”[13] sulle donne, e per certi versi, lo arruola in una missione a cui gli sarà difficile sfuggire: perpetrare la trasmissione del carattere arbitrario, culturale, e non “naturale”, del rapporto sociale uomo-donna. Presi nel loro insieme, gli atti di violenza maschile contro le donne hanno un significato preciso: la riaffermazione della supremazia di un ordine gerarchico fra i generi laddove il maschile è ritenuto ancora il luogo di una presunta superiorità e autorevolezza: “la forza dell’ordine maschile si misura dal fatto che non deve giustificarsi”[14].Viene in mente un dipinto[15] ispirato ad un fatto di cronaca: è la storia di un uomo finito in galera per aver ucciso a pugnalate la sua compagna e che una volta catturato si difese dicendo “ma è solo qualche punzecchiata, niente di che”. Accadeva in Messico, decine e decine di anni or sono, ma quel dipinto parla anche di situazioni tragicamente attuali anche nella quasi totalità dei Paesi europei dove una donna su tre, dai 15 anni di età è vittima di violenze, molestie, fenomeni di stalking e aggressioni tra le mura domestiche che provocano anche le sofferenze della violenza assistita vissute dai bambini[16].
In Europa l’orrore del femminicidio- come estremo tentativo difensivo maschile di ristabilire l’antico ordine “naturale” della sottomissione[17]– tocca tutti i Paesi, quelli più tradizionalisti (all’est) e, all’opposto, quelli che rispettano di più l’uguaglianza di genere (il cosiddetto “paradosso nordico”). Qui la Finlandia, in particolare, smentirebbe una premessa che viene data per scontata e cioè che la disuguaglianza di genere sia una delle cause più importanti della violenza contro le donne. Ma questa è sorprendentemente frequente anche in Francia, Germania e Inghilterra, nazioni promotrici dell’ideale della tolleranza e dei diritti umani. Negli ultimi cinquant’anni questi tre Paesi sono stati interessati da intensi flussi migratori e, più di altri, sono teatro di accesi scontri interculturali e di fili aggrovigliati tra i generi, sia nelle sfere private che pubbliche. Tutti segnali su cui pure in Italia sarebbe opportuno aprire un pensiero progettante, aperto ad un futuro di convivenze tra uomini e donne con patrimoni culturali diversi e fisiologicamente conflittuali. C’è allora un processo di resilienza da avviare per quanto riguarda i modelli di integrazione degli stranieri sino ad oggi adottati nel nostro continente: le ricadute sulla violenza di genere e domestica sembrano evidenti.
Grafico ISTAT – Omicidi volontari di donne in alcuni Paesi dell’Unione europea – Anno 2017
(valori per 100.000 donne)
Questi dati confermano che la violenza sulle donne è una pandemia sociale millenaria contaminante anche bambine e bambini del terzo millennio. Oggi si continua a nascere, a vivere e, troppo spesso, (le bambine) a morire di violenza. Generi e generazioni sono coinvolti in legami interpersonali aggrovigliati e in nodi sociali e culturali strutturali rispetto ai quali rivolte delle donne, sempre più numerose, e pentimenti degli uomini, mai abbastanza, non sembrano incidere.
Il “nodo” radicale[18] relativo alla trasmissione intergenerazionale della violenza contro le donne resta ancora oggi da sciogliere, come le matasse aggrovigliate del dipinto che proponiamo questo mese[19]. Riparare la tela dei rapporti umani in famiglia, nella società e tra sistemi culturali diversi è la sfida del tempo presente. Urge mettere in circolo Giustizia, Riconciliazione e Responsabilità…non a caso valori carismatici della Congregazione. Si tratta di mettere in movimento un’altra logica, un’altra lingua, quella del femminile[20].
L’insistenza sulle difese, è sempre, implicitamente,
insistenza sull’offesa, sulla capacità di offendere.
Collegamento del sistema vigilanza-difesa
con la più raffinata impostazione virile.
E allora accogliere: femminile?
Il femminile sarebbe allora nel cuore, il cuore di molte esperienze.
E anche di questa mia esperienza.[21]
(continua)