Prendiamo posizione contro la cultura della violenza sulle donne
a cura di Fiorella Capasso/Fiodanice-Cultures en dialogue
dicembre 2020-gennaio 2021 (seconda parte)
Prendiamo posizione al femminile. E’ questa la chiave intravista nella nebbia[1] che la violenza contro le donne ci fa piombare addosso, tanto se volgiamo lo sguardo a contesti culturali tradizionali – a patriarcato dominante, seppure stemperato dalla globalizzazione – quanto se assumiamo ciò che va accadendo nel nostro mondo occidentale:
“Oggi, dal tramonto del patriarcato non emerge una società con maggiori caratteristiche femminili, che si suppongono più attente alla relazione e al sentimento. Il mondo postmoderno e postpatriarcale, non è affatto postmaschile. Caso mai, valorizza qualità prepaterne del maschio: quelle di lottatore (contro i concorrenti), di cacciatore (di femmine, ma anche di successo e di reddito, richieste da una vita economica sempre più competitiva)”[2].
La fine del patriarcato sta scardinando la plurimillenaria organizzazione umana riguardante sia le relazioni interpersonali sia l’essere-in-società nel suo profondo, vale a dire la modalità del suo costituirsi e del suo perpetuarsi: un assetto a tal punto radicato da passare come inscritto da sempre nell’ordine naturale delle cose.
Questo passaggio epocale, mentre sembra liberare entrambi, donne e uomini, da aggrovigliati lacci strutturali, socio-culturali e interpersonali, nel contempo li espone ad una inedita complessità caratterizzata da smarrimenti, incertezze, ambiguità e conflitti trascinati che diventano spesso sorgenti di violenze.
Ci troviamo in un’era dominata dal discorso razionale della scienza e, soprattutto, dal discorso del capitalismo-finanziario. Il mondo, retto dal paradigma tecnocratico[3], viaggia a ritmi “troppo” accelerati, tali da nasconderci la realtà. Dove andremo a finire sfiniti[4] e incastrati in un’inerzia culturale e strutturale pervasiva e frammentante carica di rabbie e risentimento, quasi deprivati della capacità di risonanze, di sentire sé, l’altro?[5] In tempi di crisi e di trasformazione sempre sulle donne si addensa un sovraccarico simbolico e pratico di domande e di pretese.“[…] Io volevo ‘essere’. E lui mi ‘perdonava’ la mia esistenza!”[6]
Al tramonto del patriarcato corrisponde pure il collasso della figura paterna sintetizzato in una metafora diventata da qualche anno di uso comune, l’evaporazione del padre[7]. Questi da benedicente si va riducendo a benefattore riconvertito in ‘mammo’[8], spesso “abituato a contare i soldi ‘per’ la vita del figlio, ma a contare sempre meno ‘nella’ sua vita”[9]. Il timore che il patriarcato trascini nella sua caduta istituzioni ancora indispensabili all’ordine sociale più elementare, provocando caos, risposte reazionarie o resistenze è fondato.
Nelle situazioni di conflitto quando la figura del padre evapora e prevale quella del maschio, anche i figli, possono diventare destinatari diretti della violenza, mentre quella “assistita”, quella invisibile, c’è sempre, è contestuale, non si vede, ma si sente! A volte il gesto estremo è “mediato”: pur rivolto contro la madre, il padre strappa la vita “solo” ai figli e mette poi fine anche alla propria esistenza. “Non è un raptus. Vogliono punire la madre e affermare la propria mascolinità.” sostengono gli esperti[10]. Ma è pur vero che, sul versante delle donne, specie in ambito familiare/affettivo ci imbattiamo in una sorta di irragionevolezza per cui “molti assassinii si rendono possibili per via dell’insostenibile sorpresa generata dalla scoperta dell’altra faccia di chi, non solo abbiamo amato, ma ci ha riamate. Né troppo né troppo poco. Le contabilità sono inutili e fuorvianti. Né le donne né gli uomini amano troppo. Il troppo appartiene ad un ‘quid’ che abita anche l’amore più sincero, anzi, è proprio per via di quel ‘quid’ che un amore ci sembra straordinario ed unico”[11]…tanto assoluto e irrinunciabile, da non riuscire a lasciarlo andare in tempo e/o senza l’ultima possibilità, per lui, o l’ultimo chiarimento, per lei, ma che -come spesso la cronaca ci consegna- ha tutte le probabilità di diventare piuttosto l’ultimo appuntamento con la vita, fisica e simbolica, travolti entrambi dalle rispettive eredità e nebbie.
Eppure dati[12] recentissimi indicherebbero che il nostro Bel Paese si conferma tra i meno violenti d’Europa, con un tasso di omicidi molto al di sotto della media e in costante calo. Il trend storico degli omicidi volontari negli ultimi dieci anni (2008-2018) è diminuito del 45%, a fronte di una media europea di meno 30%. Peccato che la violenza di genere resti a livelli di allerta e con una elevata incidenza di femminicidi in ambito familiare/affettivo (circa il 70%), con una frequenza di 0,4 vittime al giorno, quasi raddoppiata nel periodo del primo lockdown: dare la morte è un modo illusorio di liberarsi dell’odio – e dell’attaccamento perverso che ne deriva – per l’altro. Uno scellerato tentativo di padronanza sulla propria impotenza”[13].
Tempi bui[14] e di nebbia fitta, questi, se anche autorevoli fonti offrono visioni opache, riduttive e svianti. La violenza assistita (che viola la vita dei bambini anche quando ne risparmia il corpo), inevitabilmente associata alla violenza domestica, non è neppure nominata! Ma è violenza allo stato puro, tanto invisibile quanto riproducibile e contaminante il futuro, di generazione in generazione. Sconcerta il punto interrogativo attribuito al titolo “Italia violenta?”. Sembra quasi insinuare che poiché la stragrande maggioranza dei più grandi Paesi europei è messa peggio di noi…allora. Saremo mica di fronte a una nuova versione della banalità del male?
Basta accendere i riflettori su questa piaga sociale solo il 25 Novembre[15]!
Oppure solo quando – circa ogni tre giorni – una donna viene uccisa per mano del proprio partner o ex-partner, segnalando così anche un vasto “sommerso” inquietante e doloroso!
Fermiamoci[16]! Apriamo gli occhi davanti a questi scenari strazianti malgrado, come si sa…”meglio era non vedere”[17].
Attraversiamo questa paura di rimanere pietrificatiti[18] dall’orrore! Siamo così incapaci di sopportare l’impotenza[19]?
Per noi vale il grido “Non una di meno!”[20] anche in sintonia con il patrimonio spirituale e progettuale della Congregazione: per Santa Maria Eufrasia “un’anima vale più di un mondo”.
Fortunatamente, la Corte Europea dei diritti dell’uomo, già nel 2017, ha portato uno sguardo critico sull’Italia a causa della mancata tutela delle vittime di reati di violenza sulle donne[21]. Il nostro Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), preso atto della “drammatica recrudescenza dei fenomeni riconducibili a quest’area [ndr. della violenza di genere e domestica] ormai costituenti una vera emergenza nazionale”[22], nel 2018 avvia “una pratica volta ad elaborare linee guida e diffondere le buone prassi relative ai procedimenti in materia di reati di violenza di genere e domestica, anche allo scopo di allineare l’intervento giurisdizionale in questo settore agli standard sovranazionali”. Il richiamo esplicito è, in particolare, alla Convenzione di Istanbul sulla violenza domestica (2011): il primo strumento giuridicamente vincolante che crea “un quadro giuridico e un approccio globale per combattere la violenza contro le donne, in quanto violazione dei diritti umani e incentrata sulla prevenzione della violenza domestica, sulla protezione delle vittime e sul perseguimento dei colpevoli.
L’Italia è stata tra le prime nazioni a ratificarla (2013), ma l’impatto su questa “emergenza nazionale” è tutt’ora minimo, come sottolineato dallo stesso CSM nella sua Risoluzione del 2018. In questa materia il divario tra piano formale e piano sostanziale rischia di configurarsi come un baratro per l’etica delle buone intenzioni e, soprattutto, un vuoto di giustizia in cui andranno ad accatastarsi vite infrante. Non solo quelle di donne e bambini, bensì di tutti i disgraziati protagonisti di vicende in cui vulnerabilità personali si intrecciano con le contraddizioni strutturali che attraversano la relazione uomo-donna: “A contraddizioni strutturali non si possono contrapporre biografie personali”…indicano gli esperti[23].
Ad oggi le criticità delle iniziative di contrasto della violenza sulle donne prevalgono ampiamente sulle positività[24]. Il registro giuridico e logico-razionale si sta sempre più rivelando una condizione necessaria ma non sufficiente, non solo in materia di prevenzione[25]. La violenza sulle donne, specie in ambito familiare/affettivo si presenta, infatti, come una questione che non concerne esclusivamente la Giustizia[26]; non si esaurisce tutta secondo le coordinate del discorso del “ possesso” dell’uno sull’altra e non è racchiusa in una Verità, la verità del Bene o del Male.
La nebbia sulla questione della violenza di genere, domestica e assistita permane fitta. Avventurarvisi richiede prudenza, audacia e un clima di amicizia sociale[27]: urge coinvolgerci, tutte e tutti, in una nuova immaginazione morale[28]da praticare nel tempo, di generazione in generazione.
Le eredità, inconsapevolmente costrittive che – come abbiamo ipotizzato nella prima parte – vengono “consegnate” al momento della nascita, a bambine a bambini, sono annuncio di tragedie potenziali. Ma ogni nuova generazione – se si dà anche il tempo – può contribuire alla liberazione da queste costrizioni, che – nel campo della violenza sulle donne – a volte appaiono ineluttabili, come mostri che divorano energie, sogni, Trattati locali, nazionali, europei e internazionali, vanificando i tentativi, che nell’ambito pubblico e della società civile, incessantemente nascono per venire a capo della violenza sulle donne in quanto donne e sui bambini:
“La trasmissione non è un movimento a senso unico. A differenza della Storia, la trasmissione è sempre un’operazione bilaterale, un lavoro di relazione, estratta dal vivente. Non si tratta del trasferimento di un oggetto da una mano all’altra. Esige una duplice attività: da parte di chi trasmette e da parte di chi accoglie la trasmissione. Non funziona se c’è costrizione. Presa nel gioco delle generazioni [la trasmissione] ha a che fare tanto col desiderio di quelle antiche che di quelle nuove. Sono le nuove generazioni che determinano se la vogliono e cosa interessa loro in quell’eredità. Alle antiche è richiesto di ascoltare la domanda, di spostare il loro linguaggio verso un altro linguaggio […]. La Storia non procede per addizioni, ma per ristrutturazioni” [29] .
Per quanto ci riguarda, per ora, abbiamo potuto intravedere che il prendere posizione al femminile ha a che fare specialmente con la capacità di sopportare il femminile[30] e con la capacità negativa[31] entrambe necessarie – prima, durante e dopo ogni intervento progettuale, altrimenti velleitario – a contenere “un’inedita tristezza”, “quel sole nero“[32] che si sarebbe alzato sul cielo della riflessione femminile nel determinarsi della fine del patriarcato. E ha a che fare con l’esperienza del limite: la più disertata della nostra epoca e madre delle maggiori crisi attuali, dal Covid all’emergenza climatica. Esperienza che sempre si rivela impegnativa e imperfetta – come tutto ciò che attiene all’amore – ma necessaria, per ri-aprire vie alla vita propria, dell’altro e con l’altro, avendo uno sguardo al mondo che consegneremo alle future generazioni: “E così, l’amore fa transitare, andare e venire tra le zone antagoniste dalla realtà, vi si addentra e scopre il suo non-essere, i suoi inferni…distrugge e per lo stesso motivo, dà nascita alla coscienza essendo, come è, la vita piena dell’anima…”[33].
Per sopportare la vista dell’inquietante paesaggio della violenza contro le donne, in quanto donne, mi è venuta in soccorso l’immagine del “sole rosso” di Maria Lai[34], la prima artista a creare, con ago e fili, opere relazionali che coinvolgono persone e territori. Maria, con la sua arte povera e sapiente, tesse paesaggi e linguaggi. Viene in mente un’altra Maria, la Madre che “custodiva tutte queste cose nel suo cuore.” (Luca 2,52).
Credo sia questa, dal punto di vista valoriale e teorico-metodologico, la prospettiva al femminile verso cui conviene muovere nella lotta strategica contro la violenza sulle donne e sui bambini: muovere verso paesaggi e linguaggi rinnovati, da co-inventare e realizzare, nel tempo, con arte povera e sapiente più capace di generare e custodire Storia e storie più fertili. La nostra generazione potrebbe tesserne i primi capitoli, quali frutto di tanti artigianali piani-strategici-territoriali-nonviolenti, di patti senza spade[35], attivatori di processi inclusivi e aperti nello stesso tempo: collegati tra loro e valorizzanti il capitale conoscitivo e sociale prodotto dalle iniziative di contrasto alla violenza sulle donne, in corso e passate.
Tenendo il sole per mano tenteremo così di sbrogliare via via la matassa di fili aggrovigliati del dipinto di Pollock e, forse, riusciremo a tessere Convergenze create da sintonie e sinergie[36].
Cooperando tra diversi generi e generazioni, valorizzandone le differenze, contribuiremo, donne e uomini insieme, collegati con istituzioni pubbliche e soggetti della società civile – a livello locale, nazionale ed europeo – ad eliminare la violenza, visibile e invisibile…almeno dalla vita di donne, bambine e bambini.
E’ un’impresa[37]per più generazioni intente ad inventare e praticare forme di convivenza più rispettose della dignità di ciascuna e ciascuno, da trasmettere sin dalla nascita, sin dalla culla.
Tenendo il sole per mano prepareremo tempi in cui la nebbia di oggi risulterà più sopportabile. Piomberà con meno frequenza e solo a tratti. Saranno i tempi che il poeta, come gli è proprio, aveva già intravisto:
All’alba, armati di un’ardente pazienza,
entreremo nelle splendide città[38].